Autunno, tempo di vendemmia, periodo in cui le uve vengono
raccolte per realizzare prodotti straordinari, ambasciatori della tradizione
eno-gastronomica italiana nel mondo. Non tutti quei grappoli dopo la raccolta,
tuttavia, si trasformeranno in vino: alcuni, sembra impossibile, diventeranno
birra.
Come sia possibile tutto questo ce lo spiega Il BJCP, Beer Judge Certification Program, organizzazione
nata nel 1985 per promuovere la cultura birraria e sviluppare strumenti e metodologie
per la valutazione della birra. Tra le sue attività c’è anche la pubblicazione
delle Style Guidelines, documento di
riferimento per il riconoscimento dei principali stili mondiali di birra, che
nel 2015 ha inserito e definito lo stile delle Italian Grape Ale (abbreviato in IGA) nella categoria riservata agli stili locali, un riconoscimento
senza precedenti per il nostro giovane movimento brassicolo.
Come recita il testo, IGA è uno stile di birra italiano ad alta
fermentazione, caratterizzato da diverse varietà di uve, a volte rinfrescante,
altre complesso. Le uve possono far parte della ricetta sotto forma di frutto al naturale, di mosto fermentato, di sapa o anche solo di vinaccia. Le caratteristiche aromatiche delle varie uve devono
essere riconoscibili, ma non prevaricare sugli altri aromi. Il colore può
variare dal dorato al marrone scuro, senza vincoli particolari circa i malti o
i luppoli da utilizzare.
Criteri elastici, dunque, ma sufficienti a definire un’unione
speciale in cui il carattere dell’uva, con la sua aromaticità e tipicità, s’incontra
idealmente con quello del luppolo, perché di questo si tratta: birra al mosto d’uva. Un’unione che dà vita ad una bevanda ponte
tra due mondi diversi, in antitesi. Anche l’acidità è spesso una particolarità
di queste produzioni che, se presente, deve comunque essere più una nota di
fondo che una prepotente sensazione boccale: insomma, secondo la descrizione
dello stile, le IGA non dovrebbero avere niente a che vedere con l’acidità
spiccata, ad esempio, di un Lambic della tradizione brassicola belga.
L’Italia non è, in verità, l’unica nazione produttrice, ma se
le hanno chiamate Italian un motivo
c’è: ormai da diversi anni il nostro paese rappresenta probabilmente la nazione
emergente più interessante a livello birrario e il riconoscimento delle IGA può
essere visto come un premio per questa incredibile crescita. Una sorta di
premio alla creatività dei birrai nostrani, rappresentanti di un paese sì
emergente, ma per certi versi precursore di un nuovo modo di intendere il
legame fra birra e territorio. I birrai italiani non hanno né tradizioni di
riferimento né una storia da tramandare di generazione in generazione, per cui
lavorano senza legami, liberi di sperimentare ingredienti particolari o nuove
tecniche produttive; non hanno una tradizione birraria alle spalle capace di
abbracciare i secoli come accade in altri paesi d’Europa, per cui ingredienti
come il luppolo non sono mai entrati a far parte della nostra cultura.
Il vino
e l’uva al contrario, in quanto capisaldi dell’incredibile biodiversità del
nostro paese, sono talmente partecipi della tradizione eno-gastronomica
italiana da essere spesso sinonimo di italianità all’estero. In questo scenario
le IGA offrono al birraio la grande opportunità di ancorarsi al territorio
d’origine usando uve locali, di avvicinarsi a tecniche finora inesplorate, di
entrare in confidenza con concetti come quello di terroir, ossia la capacità di un territorio,
in senso fisico ma anche umano, di conferire le proprie caratteristiche ad un
prodotto. La mancanza di caratterizzazione è sempre stata, infatti, il punto
debole della birra artigianale italiana, che ancora oggi utilizza quasi sempre
materie prime provenienti dall’estero; usare nella birra un vitigno autoctono,
laddove si era pure sperimentato ad esempio con la castagna, aiuta a colmare
questa lacuna.
Le IGA sono divenute in breve tempo una certezza del presente
nel nostro paese, perché fondate su un patrimonio vinicolo impressionante,
autentico vanto italiano nel mondo: difficile credere che una svolta simile
sarebbe potuta avvenire in altre nazioni o con altri ingredienti. Un dubbio
tuttavia sorge spontaneo: ammesso che ogni paese debba avere il tanto ricercato
suo stile birrario di riferimento, quale per un paese come il nostro se non
quello legato ad uno dei prodotti più rappresentativi? Vino e birra hanno
sempre percorso strade parallele sin dalla nascita del movimento birrario
italiano, e proprio per questo era forse già da allora inevitabile l’incontro:
il vecchio e il nuovo che con il tempo si fondono per creare il prodotto
italiano che fa parlare di sé, perché, diciamolo, dove sarebbe potuto avvenire
tale matrimonio se non in Italia?
Qualcuno forse avrebbe preferito che non fosse stato il vino
a definire il primo stile di birra italiano, con il forte rischio di
subordinazione del secondo a vantaggio del primo, quanto un'altra delle
eccellenze della biodiversità alimentare. In ogni caso oggi, e quasi certamente
anche in futuro, sono e saranno le IGA a sostenere l’italianità brassicola nel
mondo, in grado di unire due realtà così diverse come vino e birra che forse,
come già detto, erano destinate ad incontrarsi. Con l’auspicio che intorno alle
IGA venga sempre più alimentato quel fermento, nel vero senso del termine, che
ha permesso al movimento birrario artigianale italiano di affermarsi in breve
tempo sulla scena internazionale, grazie a quel misto di serietà, competenza,
estro e fantasia che i nostri birrai, tanto i primi pionieri quanto gli ultimi
arrivati, hanno saputo mettere in campo con i complimenti della comunità
internazionale del settore.
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