domenica 22 ottobre 2017

Italian Grape Ale: un'eccellenza birraria tutta italiana

Autunno, tempo di vendemmia, periodo in cui le uve vengono raccolte per realizzare prodotti straordinari, ambasciatori della tradizione eno-gastronomica italiana nel mondo. Non tutti quei grappoli dopo la raccolta, tuttavia, si trasformeranno in vino: alcuni, sembra impossibile, diventeranno birra.
Come sia possibile tutto questo ce lo spiega Il BJCP, Beer Judge Certification Program, organizzazione nata nel 1985 per promuovere la cultura birraria e sviluppare strumenti e metodologie per la valutazione della birra. Tra le sue attività c’è anche la pubblicazione delle Style Guidelines, documento di riferimento per il riconoscimento dei principali stili mondiali di birra, che nel 2015 ha inserito e definito lo stile delle Italian Grape Ale (abbreviato in IGA) nella categoria riservata agli stili locali, un riconoscimento senza precedenti per il nostro giovane movimento brassicolo.









Come recita il testo, IGA è uno stile di birra italiano ad alta fermentazione, caratterizzato da diverse varietà di uve, a volte rinfrescante, altre complesso. Le uve possono far parte della ricetta sotto forma di frutto al naturale, di mosto fermentato, di sapa o anche solo di vinaccia. Le caratteristiche aromatiche delle varie uve devono essere riconoscibili, ma non prevaricare sugli altri aromi. Il colore può variare dal dorato al marrone scuro, senza vincoli particolari circa i malti o i luppoli da utilizzare.
Criteri elastici, dunque, ma sufficienti a definire un’unione speciale in cui il carattere dell’uva, con la sua aromaticità e tipicità, s’incontra idealmente con quello del luppolo, perché di questo si tratta: birra al mosto d’uva. Un’unione che dà vita ad una bevanda ponte tra due mondi diversi, in antitesi. Anche l’acidità è spesso una particolarità di queste produzioni che, se presente, deve comunque essere più una nota di fondo che una prepotente sensazione boccale: insomma, secondo la descrizione dello stile, le IGA non dovrebbero avere niente a che vedere con l’acidità spiccata, ad esempio, di un Lambic della tradizione brassicola belga.

L’Italia non è, in verità, l’unica nazione produttrice, ma se le hanno chiamate Italian un motivo c’è: ormai da diversi anni il nostro paese rappresenta probabilmente la nazione emergente più interessante a livello birrario e il riconoscimento delle IGA può essere visto come un premio per questa incredibile crescita. Una sorta di premio alla creatività dei birrai nostrani, rappresentanti di un paese sì emergente, ma per certi versi precursore di un nuovo modo di intendere il legame fra birra e territorio. I birrai italiani non hanno né tradizioni di riferimento né una storia da tramandare di generazione in generazione, per cui lavorano senza legami, liberi di sperimentare ingredienti particolari o nuove tecniche produttive; non hanno una tradizione birraria alle spalle capace di abbracciare i secoli come accade in altri paesi d’Europa, per cui ingredienti come il luppolo non sono mai entrati a far parte della nostra cultura.
Il vino e l’uva al contrario, in quanto capisaldi dell’incredibile biodiversità del nostro paese, sono talmente partecipi della tradizione eno-gastronomica italiana da essere spesso sinonimo di italianità all’estero. In questo scenario le IGA offrono al birraio la grande opportunità di ancorarsi al territorio d’origine usando uve locali, di avvicinarsi a tecniche finora inesplorate, di entrare in confidenza con concetti come quello di terroir, ossia la capacità di un territorio, in senso fisico ma anche umano, di conferire le proprie caratteristiche ad un prodotto. La mancanza di caratterizzazione è sempre stata, infatti, il punto debole della birra artigianale italiana, che ancora oggi utilizza quasi sempre materie prime provenienti dall’estero; usare nella birra un vitigno autoctono, laddove si era pure sperimentato ad esempio con la castagna, aiuta a colmare questa lacuna.

Le IGA sono divenute in breve tempo una certezza del presente nel nostro paese, perché fondate su un patrimonio vinicolo impressionante, autentico vanto italiano nel mondo: difficile credere che una svolta simile sarebbe potuta avvenire in altre nazioni o con altri ingredienti. Un dubbio tuttavia sorge spontaneo: ammesso che ogni paese debba avere il tanto ricercato suo stile birrario di riferimento, quale per un paese come il nostro se non quello legato ad uno dei prodotti più rappresentativi? Vino e birra hanno sempre percorso strade parallele sin dalla nascita del movimento birrario italiano, e proprio per questo era forse già da allora inevitabile l’incontro: il vecchio e il nuovo che con il tempo si fondono per creare il prodotto italiano che fa parlare di sé, perché, diciamolo, dove sarebbe potuto avvenire tale matrimonio se non in Italia?

Qualcuno forse avrebbe preferito che non fosse stato il vino a definire il primo stile di birra italiano, con il forte rischio di subordinazione del secondo a vantaggio del primo, quanto un'altra delle eccellenze della biodiversità alimentare. In ogni caso oggi, e quasi certamente anche in futuro, sono e saranno le IGA a sostenere l’italianità brassicola nel mondo, in grado di unire due realtà così diverse come vino e birra che forse, come già detto, erano destinate ad incontrarsi. Con l’auspicio che intorno alle IGA venga sempre più alimentato quel fermento, nel vero senso del termine, che ha permesso al movimento birrario artigianale italiano di affermarsi in breve tempo sulla scena internazionale, grazie a quel misto di serietà, competenza, estro e fantasia che i nostri birrai, tanto i primi pionieri quanto gli ultimi arrivati, hanno saputo mettere in campo con i complimenti della comunità internazionale del settore.

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